lunedì 11 febbraio 2013

Collana Pellerossa

Realizzata con gli artigli dell’aquila dal  collo bianco.





Mio nipote ha notato, appesa ad un lato del camino, una collana con artigli. Ha chiesto che cos’era e come l’ho avuta,…. ed ho iniziato a raccontare.

    … Anch’io sono stato giovane e sono cresciuto a pane e film western. Ho amato Tex Willer, Django e tutte le vicende del Texas dei mitici pistoleri che combattevano l’ingiustizia con le loro azioni. Ho visto tutta l’epopea dell’America, delle tribù degli indiani per i quali ho provato sentimenti contrastanti tra odio e amore.
    Poi, durante il periodo di convalescenza, per l’intervento di appendicite, ho letto un gran numero di libri dedicati ai pellerossa, al loro modo di vivere, delle loro gesta e delle battaglie contro chi gli aveva occupato il territorio.
   Hai mai visto i cartoon dell’orso Yoghi? E Bubu? I simpatici orsi sempre in cerca di cestini dei visitatori del parco, il loro parco si chiamava Jellystone, (gelatina di pietra) ma poco importa il riferimento al parco di Yellowstone era chiaro. Quei libri, quei film mi hanno fatto nascere la curiosità insieme al desiderio di  fare un “salto” in America per conoscere e incontrare gli indiani.
Sarei andato a trovarli nelle loro riserve del parco di Yellowstone – (pietra gialla) (il parco nazionale di Yellowstone si trova nell’America del Nord - Stati Uniti nell'estremo settore nord-occidentale dello stato del Wyoming, occupando un'ampia zona delle Montagne Rocciose, è il più antico parco nazionale del mondo,  fondato nel 1872)

  L’occasione mi si è presentata nel 1975 quando a Vicenza ebbi modo di conoscere un militare americano originario del Wyoming. Diventammo amici e fu lui che mi illustrò il parco e mi diede l’opportunità di conoscere un vero nativo americano della tribù dei Shoshoni.
     Il parco ha diversi corsi d’acqua, il più importante dà il nome al parco. Un altro fiume dal nome buffo che tradotto in lingua locale significa acqua puzzolente.  Sai che noi chiamiamo impropriamente indiani solo perché un certo Cristoforo Colombo credeva di essere arrivato in India, è bene chiamare quaelle persone con i nomi delle loro nazioni o tribù. Hopi, Shoshoni, Piedi Neri, Cheyenne, Ahpache, Navaho, Kiowa, Lakota, Cherokee e tanti altri.
   Questo luogo è uno spettacolo naturale unico e tanto vario, è costituito da una serie di altipiani, di grandi praterie, da folti boschi e da profondi canyon che creano magnifiche cascate. Sono presenti lunghi sentieri, dal tipico nome indiano, (sentiero rosso, della montagna, della terra che scotta)..
  In certi luoghi, mentre cammini e sei distratto dalla bellezza della natura, senti il caldo sotto i piedi e come per magia si ode un grande sbuffo e una colonna d’acqua e vapore si alza a poche decine di metri per uno spettacolo unico che si ripete ad intervalli regolari, sono i geyser sorgenti calde fino a 200 gradi centigradi. Il più potente di questi crea una colonna d’acqua alta come il campanile del mio paese. Nel parco vi sono formazioni rocciose che lo rendono unico al mondo.
Questa oasi naturale è popolata da specie di animali rari, e purtroppo alcune in via di estinzione.  Lupi grigi, bisonti dalla caratteristica gobba, l’orso bruno, l’alce, la capra delle nevi, il puma dal manto nerissimo e l’aquila dalla testa bianca. Devo dirti che non li ho visti tutti questi animali, ma ad ogni angolo di strada o mulattiera un cartello ne dava segnalazione. …. Anche l’orso grizzly presente nei boschi, ma del quale non avevo nessuna voglia di fare conoscenza.
  Il parco è ormai invaso da visitatori di ogni nazione e specie, varie strutture di accoglienza per turisti  rovinano un po’ i paesaggi meravigliosi, gli splendidi rossi tramonti e il silenzio che è la vera atmosfera del luogo.

  Mi sono reso conto di essere arrivato quando ho visto un cartello che mi indica la riserva degli Shoshoni.  Uno stretto ponte per attraversare un fiume che fa da confine con la riserva e subito inizia un  deserto arrido e privo di vita ed è proprio lì che vivono relegati gli indiani d’America.  Strade sassose arride e poco curate.  I pellerossa erano i padroni di quella terra ora sono chiamati “minoranza etnica” e sono costretti a vivere nascosti nelle riserve loro destinate. Anche se non vivono più nelle tende, ma in modeste case.
  La mattina che sono arrivato ed ho incontrato il mio accompagnatore indiano dal nome Kewedinock (primavera felice), stavo per alzare la mano e pronunciare il classico “haug”, il saluto che avevo imparato nei film western ma lui mi precedette con questo classico saluto.
  La giornata era bella, il cielo sereno di un azzurro pulito e un sole caldo. Sulla riva del fiume un solitario pescatore con una rozza canna attendeva calmo l’abboccare di un pesce.
Il mio “pellerossa” faccia rugosa e capelli lunghi lisci e nerissimi, teneva tra i denti la canna di una pipa in pietra dove aspirava abbondanti boccate di fumo, la tolse di bocca e me la offrì in segno di pace e di amicizia. Io non fumo, ma non ho potuto rifiutare, dopo la prima boccata mi sono messo a tossire e il mio amico si è messo a ridere esclamando “waps - ah! Voi bianchi!”.
  Prima di quell’incontro avevo visitato tutto quello che si poteva vedere, musei con attrezzi e vestiti indiani dell’epopea americana, mi ero preparato ed ora quel posto mi sembrava particolare, forse gli spiriti indiani erano con noi.
 Si respirava l’atmosfera del tempo passato, i miei pensieri andavano a ritroso quando quelle cittadine erano accampamenti con le tende di pelle di bufalo e la vita scorreva serena e rispettosa della natura.
  Ho voluto,anch’io, piantare la mia tenda “tecnologica” di nylon  su quelle terre, eravamo a 2000 metri e l’aria era fresca e frizzante, qualche animale si vedeva di tanto in tanto, durante le passeggiate ne sentivo la presenza, ho visto da lontano  pochi bisonti, non erano così numerosi come nel film di “Balla coi lupi”.
  Ho detto tante parole che erano insieme domande e le risposte che volevo sentire, lui annuiva e sorrideva. 
 Ho suonato con lui il tamburo, intonato una nenia indiana e indossato il suo copricapo con tante piume colorate che si era realizzato insieme a tradizionale vestito.
   Al tramonto di quel primo giorno, un gran battere di tamburi e pellerossa nei tipici  costumi delle tribù si radunarono attorno ad un grande fuoco acceso ed ad un Totem che aveva la forma di un grande uccello con le ali aperte.
 Gli indiani che sembravano spariti d’incanto ne apparve una moltitudine con cavalli e squaw (ragazze) con lunghe treccine per la loro festa propiziatoria annuale la “danza del sole(sundance) che dura quattro giorni, si danza guardando il sole, il ritmo dei tamburi echeggia per tutta la spianata e ti travolge e ti invita a partecipare.  Si svolge ogni anno a cavallo del solstizio d’estate.  Quattro giorni indimenticabili completamente coinvolto nei loro canti, danze e mangiare insieme a gente amichevole.
  Il mio accompagnatore mi disse che ormai lo spirito indiano non c’è più, i giovani studiano nelle scuole e imparano a vivere come i bianchi e imitano il loro stile di vita, vestono alla moda, usano l’auto e alla nostra musica preferiscono la “tecno” o il “rock”. Poi continuò – non ci sono più le grandi praterie, le mandrie di cavalli, la caccia e la tranquillità d’un tempo quando si seguivano i ritmi dettati della natura. Queste feste sono più per i turisti e per quei pochi nativi che sentono ancora il richiamo del loro popolo e degli antenati, vengono in riserva una volta all’anno bardati con vestiti acquistati ai grandi magazzini come se fosse un carnevale. Dopo un attimo di silenzio, preso dalla nostalgia, si chinò e mi sussurrò all’orecchio: “domani ti porto a vedere il nido delle aquile dal collo bianco, un uccello sacro per noi indiani”.
   Il sole non era ancora sorto, ma la luce rischiarava quell’alba fresca, il cielo era di un colore indaco, pulito e sgombro da nuvole. La strada da percorrere era lunga (sentiero della montagna e dell’aquila dal collo bianco) . Il mio amico aveva già sellati due cavalli “Appaloosa". Montati in groppa ci incamminammo lungo il sentiero che attraversa un folto bosco e sale sempre più in alto verso la montagna. Dopo un paio d’ore giungemmo alla fine di quel intricato scuro bosco. Le piante si erano diradate e di fronte a noi l’immagine maestosa di una montagna rocciosa che alla luce del sole sembrava color ocra. Ai margini del bosco costruimmo un piccolo recinto con delle funi dove mettemmo i cavalli a brucare la poca erba.  L’indiano mi indicò dove stavano le aquile. Lasciato lo zaino e gli indumenti più pesanti ci accingemmo a raggiungere la parete per scalarla. Si saliva lentamente, senza chiodi o corde di sicurezza. Tastavo la solidità delle rocce con le mani e poi quelle dei piedi e salivo come l’uomo ragno. Dopo un centinaio di metri, di lenta salita, mentre stavo per toccare l’ennesima roccia misi impropriamente una mano nel bel mezzo di un nido d’aquila, sentii un morbido pulcino che subito emise un forte pigolio. Mamma aquila lo sentì mentre roteava alta nel cielo limpido, rispose a quel richiamo e anche lei emise forte un grido che si sentì distintamente e subito calò in picchiata.  “Attento” mi gridò il mio compagno di scalata. Non ebbi il tempo di girare lo sguardo che l’aquila mi stava attaccando alle spalle infilandomi i suoi poderosi ed affilati artigli nella carne appena sotto la scapola destra provocandomi una profonda e sanguinante ferita.   Con una mano cercai di divincolarmi da quella dolorosa presa, mentre con l’altra cercavo di tenermi stretto alla montagna. Quando la “battaglia” terminò e riuscii a liberarmi dagli artigli dell’aquila dal collo bianco mi allontanai in fretta dal nido scendendo ai piedi della montagna. Mi batteva forte il cuore, il respiro affannoso, una grande paura e una dolorosa e sanguinante ferita che mi fece allontanare in fretta da quel posto. “L’aquila voleva difendere il suo pulcino ed era riuscita scacciandomi”. Durante il ritorno ci riposammo in una grotta dove l’amico indiano trovò i resti di un’aquila uccisa da un coyote,  staccò gli artigli e raccolse una piuma della coda che diresse verso il sole, la posò su ad fiore pronunciando frasi incomprensibili, dopo questa breve cerimonia passò la piuma sulla mia ferita dicendomi che sarei guarito in fretta.
   La ferita profonda non mi fece dormire. Quella notte  un violento temporale attraversò ed oscurò il cielo scaricando lampi giganteschi e tuoni di intensità mai sentita, come se lo spirito dell’aquila mi volesse ancora castigare.
  Porto ancora evidenti i segni di quegli artigli sulla schiena. Kewedinock con gli artigli  dell’aquila trovata nella grotta realizzò  per me una splendida collana che conservo ancora: “ed è quella che vedi”.
Prima di salutarmi mi regalò una frase – “nella vita non ci sono brutti giorni, per quanto tempestoso possa essere ogni giorno è buono e utile perché vivi”. 

  Non sono più tornato nella terra dei “pellerossa”, anche se mi ero più volte ripromesso di farlo, il mio amico Kewedinock al solstizio d’estate mi chiama, non con segnali di fumo, per telefono, .
…. di tanto intanto, nelle calde notti d’estate di luna piena risento lontano il richiamo di quei tamburi e i canti degli indiani Shoshoni.

Feb.2013                                                    FerMala