Realizzata con gli artigli dell’aquila dal
collo bianco.
Mio
nipote ha notato, appesa ad un lato del camino, una collana con artigli. Ha
chiesto che cos’era e come l’ho avuta,…. ed ho iniziato a raccontare.
… Anch’io sono
stato giovane e sono cresciuto a pane e film western. Ho amato Tex Willer,
Django e tutte le vicende del Texas dei mitici pistoleri che combattevano
l’ingiustizia con le loro azioni. Ho visto tutta l’epopea dell’America, delle
tribù degli indiani per i quali ho provato sentimenti contrastanti tra odio e
amore.
Poi, durante il
periodo di convalescenza, per l’intervento di appendicite, ho letto un gran
numero di libri dedicati ai pellerossa, al loro modo di vivere, delle loro
gesta e delle battaglie contro chi gli aveva occupato il territorio.
Hai mai visto i
cartoon dell’orso Yoghi? E Bubu? I simpatici orsi sempre in cerca di cestini
dei visitatori del parco, il loro parco si chiamava Jellystone, (gelatina di pietra) ma poco importa il
riferimento al parco di Yellowstone era chiaro. Quei libri, quei film mi hanno fatto
nascere la curiosità insieme al desiderio di fare un “salto” in America per conoscere e incontrare
gli indiani.
Sarei andato a trovarli nelle loro riserve del parco di Yellowstone
– (pietra gialla) (il parco nazionale di Yellowstone si trova
nell’America del Nord - Stati Uniti nell'estremo settore
nord-occidentale dello stato del Wyoming,
occupando un'ampia zona delle Montagne
Rocciose, è il più antico parco nazionale del mondo, fondato nel 1872)
L’occasione mi si è
presentata nel 1975 quando a Vicenza ebbi modo di conoscere un militare
americano originario del Wyoming. Diventammo amici e fu lui che mi illustrò il
parco e mi diede l’opportunità di conoscere un vero nativo americano della
tribù dei Shoshoni.
Il parco ha
diversi corsi d’acqua, il più importante dà il nome al parco. Un altro fiume
dal nome buffo che tradotto in lingua locale significa acqua puzzolente. Sai che noi chiamiamo impropriamente indiani
solo perché un certo Cristoforo Colombo credeva di essere arrivato in India, è
bene chiamare quaelle persone con i nomi delle loro nazioni o tribù. Hopi,
Shoshoni, Piedi Neri, Cheyenne, Ahpache, Navaho, Kiowa, Lakota, Cherokee e
tanti altri.
Questo luogo è uno
spettacolo naturale unico e tanto vario, è costituito da una serie di
altipiani, di grandi praterie, da folti boschi e da profondi canyon che creano
magnifiche cascate. Sono presenti lunghi sentieri, dal tipico nome indiano, (sentiero rosso, della montagna, della terra
che scotta)..
In certi luoghi, mentre
cammini e sei distratto dalla bellezza della natura, senti il caldo sotto i
piedi e come per magia si ode un grande sbuffo e una colonna d’acqua e vapore
si alza a poche decine di metri per uno spettacolo unico che si ripete ad
intervalli regolari, sono i geyser sorgenti calde fino a 200 gradi centigradi.
Il più potente di questi crea una colonna d’acqua alta come il campanile del
mio paese. Nel parco vi sono formazioni rocciose che lo rendono unico al mondo.
Questa oasi naturale è popolata da specie di animali rari, e
purtroppo alcune in via di estinzione. Lupi
grigi, bisonti dalla caratteristica gobba, l’orso bruno, l’alce, la capra delle
nevi, il puma dal manto nerissimo e l’aquila dalla testa bianca. Devo dirti che
non li ho visti tutti questi animali, ma ad ogni angolo di strada o mulattiera
un cartello ne dava segnalazione. …. Anche l’orso grizzly presente nei boschi,
ma del quale non avevo nessuna voglia di fare conoscenza.
Il parco è ormai
invaso da visitatori di ogni nazione e specie, varie strutture di accoglienza per
turisti rovinano un po’ i paesaggi
meravigliosi, gli splendidi rossi tramonti e il silenzio che è la vera
atmosfera del luogo.
Mi sono reso conto
di essere arrivato quando ho visto un cartello che mi indica la riserva degli
Shoshoni. Uno stretto ponte per attraversare
un fiume che fa da confine con la riserva e subito inizia un deserto arrido e privo di vita ed è proprio lì
che vivono relegati gli indiani d’America. Strade sassose arride e poco curate. I pellerossa erano i padroni di quella terra
ora sono chiamati “minoranza etnica” e sono costretti a vivere nascosti nelle
riserve loro destinate. Anche se non vivono più nelle tende, ma in modeste
case.
La mattina che sono
arrivato ed ho incontrato il mio accompagnatore indiano dal nome Kewedinock (primavera felice), stavo per alzare la
mano e pronunciare il classico “haug”,
il saluto che avevo imparato nei film western ma lui mi precedette con questo
classico saluto.
La giornata era
bella, il cielo sereno di un azzurro pulito e un sole caldo. Sulla riva del fiume
un solitario pescatore con una rozza canna attendeva calmo l’abboccare di un
pesce.
Il mio “pellerossa” faccia rugosa e capelli lunghi lisci e
nerissimi, teneva tra i denti la canna di una pipa in pietra dove aspirava
abbondanti boccate di fumo, la tolse di bocca e me la offrì in segno di pace e
di amicizia. Io non fumo, ma non ho potuto rifiutare, dopo la prima boccata mi
sono messo a tossire e il mio amico si è messo a ridere esclamando “waps - ah! Voi bianchi!”.
Prima di
quell’incontro avevo visitato tutto quello che si poteva vedere, musei con
attrezzi e vestiti indiani dell’epopea americana, mi ero preparato ed ora quel
posto mi sembrava particolare, forse gli spiriti indiani erano con noi.
Si respirava
l’atmosfera del tempo passato, i miei pensieri andavano a ritroso quando quelle
cittadine erano accampamenti con le tende di pelle di bufalo e la vita scorreva
serena e rispettosa della natura.
Ho voluto,anch’io,
piantare la mia tenda “tecnologica”
di nylon su quelle terre, eravamo a 2000
metri e l’aria era fresca e frizzante, qualche animale si vedeva di tanto in
tanto, durante le passeggiate ne sentivo la presenza, ho visto da lontano pochi bisonti, non erano così numerosi come
nel film di “Balla coi lupi”.
Ho detto tante parole
che erano insieme domande e le risposte che volevo sentire, lui annuiva e
sorrideva.
Ho suonato con lui il
tamburo, intonato una nenia indiana e indossato il suo copricapo con tante
piume colorate che si era realizzato insieme a tradizionale vestito.
Al tramonto di quel
primo giorno, un gran battere di tamburi e pellerossa nei tipici costumi delle tribù si radunarono attorno ad
un grande fuoco acceso ed ad un Totem che aveva la forma di un grande uccello con
le ali aperte.
Gli indiani che
sembravano spariti d’incanto ne apparve una moltitudine con cavalli e squaw (ragazze) con lunghe treccine per la loro festa propiziatoria
annuale la “danza del sole” (sundance) che dura quattro giorni, si
danza guardando il sole, il ritmo dei tamburi echeggia per tutta la spianata e
ti travolge e ti invita a partecipare. Si
svolge ogni anno a cavallo del solstizio d’estate. Quattro giorni indimenticabili completamente
coinvolto nei loro canti, danze e mangiare insieme a gente amichevole.
Il mio
accompagnatore mi disse che ormai lo spirito indiano non c’è più, i giovani
studiano nelle scuole e imparano a vivere come i bianchi e imitano il loro
stile di vita, vestono alla moda, usano l’auto e alla nostra musica
preferiscono la “tecno” o il “rock”. Poi continuò – non ci sono più le grandi
praterie, le mandrie di cavalli, la caccia e la tranquillità d’un tempo quando
si seguivano i ritmi dettati della natura. Queste feste sono più per i turisti
e per quei pochi nativi che sentono ancora il richiamo del loro popolo e degli
antenati, vengono in riserva una volta all’anno bardati con vestiti acquistati
ai grandi magazzini come se fosse un carnevale. Dopo un attimo di silenzio,
preso dalla nostalgia, si chinò e mi sussurrò all’orecchio: “domani ti porto a
vedere il nido delle aquile dal collo bianco, un uccello sacro per noi indiani”.
Il sole non era ancora sorto, ma la luce
rischiarava quell’alba fresca, il cielo era di un colore indaco, pulito e
sgombro da nuvole. La strada da percorrere era lunga (sentiero della montagna e dell’aquila dal collo bianco) . Il mio
amico aveva già sellati due cavalli “Appaloosa". Montati in groppa ci
incamminammo lungo il sentiero che attraversa un folto bosco e sale sempre più
in alto verso la montagna. Dopo un paio d’ore giungemmo alla fine di quel
intricato scuro bosco. Le piante si erano diradate e di fronte a noi l’immagine
maestosa di una montagna rocciosa che alla luce del sole sembrava color ocra. Ai
margini del bosco costruimmo un piccolo recinto con delle funi dove mettemmo i
cavalli a brucare la poca erba. L’indiano
mi indicò dove stavano le aquile. Lasciato lo zaino e gli indumenti più pesanti
ci accingemmo a raggiungere la parete per scalarla. Si saliva lentamente, senza
chiodi o corde di sicurezza. Tastavo la solidità delle rocce con le mani e poi
quelle dei piedi e salivo come l’uomo ragno. Dopo un centinaio di metri, di
lenta salita, mentre stavo per toccare l’ennesima roccia misi impropriamente
una mano nel bel mezzo di un nido d’aquila, sentii un morbido pulcino che
subito emise un forte pigolio. Mamma aquila lo sentì mentre roteava alta nel
cielo limpido, rispose a quel richiamo e anche lei emise forte un grido che si
sentì distintamente e subito calò in picchiata. “Attento” mi gridò il mio compagno di scalata.
Non ebbi il tempo di girare lo sguardo che l’aquila mi stava attaccando alle
spalle infilandomi i suoi poderosi ed affilati artigli nella carne appena sotto
la scapola destra provocandomi una profonda e sanguinante ferita. Con una mano cercai di divincolarmi da quella
dolorosa presa, mentre con l’altra cercavo di tenermi stretto alla montagna. Quando
la “battaglia” terminò e riuscii a liberarmi dagli artigli dell’aquila dal
collo bianco mi allontanai in fretta dal nido scendendo ai piedi della
montagna. Mi batteva forte il cuore, il respiro affannoso, una grande paura e
una dolorosa e sanguinante ferita che mi fece allontanare in fretta da quel
posto. “L’aquila voleva difendere il suo pulcino ed era riuscita scacciandomi”.
Durante il ritorno ci riposammo in una grotta dove l’amico indiano trovò i
resti di un’aquila uccisa da un coyote, staccò gli artigli e raccolse una piuma della
coda che diresse verso il sole, la posò su ad fiore pronunciando frasi
incomprensibili, dopo questa breve cerimonia passò la piuma sulla mia ferita
dicendomi che sarei guarito in fretta.
La ferita profonda
non mi fece dormire. Quella notte un violento
temporale attraversò ed oscurò il cielo scaricando lampi giganteschi e tuoni di
intensità mai sentita, come se lo spirito dell’aquila mi volesse ancora castigare.
Porto ancora evidenti
i segni di quegli artigli sulla schiena. Kewedinock con gli artigli dell’aquila trovata nella grotta
realizzò per me una splendida collana
che conservo ancora: “ed è quella che vedi”.
Prima di salutarmi mi regalò una frase – “nella vita non ci
sono brutti giorni, per quanto tempestoso possa essere ogni giorno è buono e
utile perché vivi”.
Non sono più tornato
nella terra dei “pellerossa”, anche se mi ero più volte ripromesso di farlo, il
mio amico Kewedinock al solstizio d’estate mi chiama, non con segnali di fumo,
per telefono, .
…. di tanto intanto, nelle calde notti d’estate di luna
piena risento lontano il richiamo di quei tamburi e i canti degli indiani Shoshoni.
Feb.2013 FerMala
La tua collana e splendida e lo scritto molto interessante...tutti noi vedo che abbiamo passioni più o meno conosciute. Complimenti Fer
RispondiEliminaCaro Fernando, bellissima la tua collana, e ancora più interessante ciò che ci hai spiegato. Grazie caro amico, tiauguro una buona settimana.
RispondiEliminaTomaso
Bel racconto, momenti come quelli sono esperienze indimenticabili ...nel bene e nel male!
RispondiEliminaI liked your beautiful necklace. I have one necklace made of Elephant's ivory :) . I will share some day.
RispondiEliminaAlso you have written very well. I must follow your blog :)
Greetings
Kiran
I'd love to hear your story on the necklace of ivory. hello thanks.
EliminaAnonimo
RispondiEliminaI could not resist commenting. Perfectly written!