domenica 23 dicembre 2012
lunedì 17 dicembre 2012
giovedì 22 novembre 2012
mercoledì 14 novembre 2012
La rota ad Po
14 novembre 1951 – la mia alluvione. “la rota ad Po”
Ho, da poco meno di
un mese, compiuto quattro anni. Da ore, da giorni, da settimane cade la pioggia
e tutto è fradicio, la vedo cadere
copiosa, la sento battere sui coppi che coprono il tetto della nostra casa. Una
grande fattoria con tutti gli animali che “usavano” quel tempo. Nella stalla un
gran numero di vacche con i loro allegri vitellini. Due cavalli, galline,
faraone, tacchini e due grossi maiali, che avevano il destino segnato da li a
poche settimane. Completavano l’allegra compagnia un grosso cane lupo ed un
gatto rosso. Il cane Leon, andava avanti e indietro sempre per lo stesso percorso, obbligato da un filo di ferro fissato
tra la casa e la stalla dove scorreva la lunga catena che aveva attaccata al collo.
Nei volti e nelle espressioni della gente si intravvedeva tanta preoccupazione, frasi sottovoce, azioni preparatorie disposizioni che a quel tempo non capivo. “Il fiume Po minacciava di rompere gli argini”.
La preoccupazione più grande era che ciò avvenisse a Ficarolo, dove il fiume fa un’ansa quasi ad angolo retto, in quel punto, la forza delle acque poteva rompere l’argine sinistro e riversare tutta la sua massa distruttrice verso la nostra casa. Anche se distante qualche chilometro, il borgo di case era proprio sulla direttrice dell’eventuale corso d’acqua. La pioggia continuava a cadere abbondante. Tutti gli abitanti del borgo si stavano preparando al peggio ed avevano caricato le poche cose che possedevano sul carro, pronti per portarle in salvo sull’argine del Po.
Nei volti e nelle espressioni della gente si intravvedeva tanta preoccupazione, frasi sottovoce, azioni preparatorie disposizioni che a quel tempo non capivo. “Il fiume Po minacciava di rompere gli argini”.
La preoccupazione più grande era che ciò avvenisse a Ficarolo, dove il fiume fa un’ansa quasi ad angolo retto, in quel punto, la forza delle acque poteva rompere l’argine sinistro e riversare tutta la sua massa distruttrice verso la nostra casa. Anche se distante qualche chilometro, il borgo di case era proprio sulla direttrice dell’eventuale corso d’acqua. La pioggia continuava a cadere abbondante. Tutti gli abitanti del borgo si stavano preparando al peggio ed avevano caricato le poche cose che possedevano sul carro, pronti per portarle in salvo sull’argine del Po.
Il
mattino di lunedì 12 a mia sorella di undici anni erano state tolte le
tonsille, all’ospedale di Santa Maria Maddalena ed era stata sistemata per la
convalescenza da Ignazio, lo zio di mio padre, che abitava a qualche centinaio
di metri dall’argine del Po. Sistemata
la bambina, mia madre ritornò a casa per preparare una leggera
minestrina da portarle. Era giunta ormai l’ora di
pranzo a casa di Ignazio, la moglie , aveva già preparato per loro una
pastasciutta condita con un ragù a base di salame, impietositi dalla bambina che li guardava mangiare non si
fecero scrupolo e ne fecero un bel piatto anche per lei, che incurante del
proprio malanno mangiò, deglutendo a fatica i grossi pezzi di pasta e salame.
La notte aveva fatto luna piena, la pioggia batteva con insistenza sui coppi e una luce tetra rischiarava di tanto in tanto il buio notturno. Il 14 mattino si portarono tutti gli animali che si potevano sull’argine del Po. Ho visto l’acqua schiumosa correre veloce trascinare alberi interi, il fiume era pieno fino all’orlo, sembrava che nel mezzo l’acqua fosse più alta della riva perché non si scorgeva la riva opposta, l’acqua limacciosa arrivava fin sopra l’argine, dove instancabili uomini continuavano a mettere sacchi riempiti di terra per fermarla. Appena sotto l’argine spuntavano i fontanazzi e bisognava correre subito a bloccare la fuoriuscita dell’acqua. I nostri buoi erano legati con la cavezza al carro, dove i miei avevano disposto sopra un telone a protezione della pioggia, noi eravamo sistemati sotto. Alla casa era rimasto Clemente, un altro zio di mio padre, a governare i pochi animali rimasti, lui aveva anche una decina di pecore sul fienile. Nel pollaio avevano disposto delle fascine di legna dove i polli si sarebbero posati in caso di allagamento, mentre nel granaio erano state messe le faraone e i tacchini.
La notte aveva fatto luna piena, la pioggia batteva con insistenza sui coppi e una luce tetra rischiarava di tanto in tanto il buio notturno. Il 14 mattino si portarono tutti gli animali che si potevano sull’argine del Po. Ho visto l’acqua schiumosa correre veloce trascinare alberi interi, il fiume era pieno fino all’orlo, sembrava che nel mezzo l’acqua fosse più alta della riva perché non si scorgeva la riva opposta, l’acqua limacciosa arrivava fin sopra l’argine, dove instancabili uomini continuavano a mettere sacchi riempiti di terra per fermarla. Appena sotto l’argine spuntavano i fontanazzi e bisognava correre subito a bloccare la fuoriuscita dell’acqua. I nostri buoi erano legati con la cavezza al carro, dove i miei avevano disposto sopra un telone a protezione della pioggia, noi eravamo sistemati sotto. Alla casa era rimasto Clemente, un altro zio di mio padre, a governare i pochi animali rimasti, lui aveva anche una decina di pecore sul fienile. Nel pollaio avevano disposto delle fascine di legna dove i polli si sarebbero posati in caso di allagamento, mentre nel granaio erano state messe le faraone e i tacchini.
Mia
madre, era al sesto mese di gravidanza ed oltre a me aveva altri due figli quando
le campane del pendente campanile di Ficarolo incominciarono a suonare a
martello. “Il Po ha rotto l’argine a Bergantino”, la notizia risultò poi falsa,
ma fu sufficiente per seminare il panico tra la gente “bisognava fare in fretta
e rifugiarsi sugli argini perché l’acqua sarebbe arrivata da lì a poco”. I miei
due fratelli si trovavano a casa, quando la notizia si diffuse, mia madre tornò
di corsa dall’argine del Po e iniziò a gridare da lontano per richiamare la
loro attenzione affinché anche loro si mettessero al sicuro.
La sera di mercoledì 14, un grosso boato scosse la popolazione di Occhiobello: “Il Po ha rotto l’argine a Malcantone”. Fino al mare un’enorme distesa d’acqua. Sarà questa l’alluvione più estesa che possa ricordare l’Italia. Prima l’acqua percorse in senso inverso i canali di scolo. Quello che avevamo dietro casa nostra aumentava di minuto in minuto la propria portata. Il ponte, per arrivare a casa nostra, ne ostruiva il corso e l’acqua, come un in enorme getto spruzzava rumorosamente dalla parte opposta provocando un’enorme buca che rimase visibile per anni. Lo zio Clemente stava cenando quando sentì l’acqua bagnargli i piedi. In fretta si spostò al piano superiore, dove stavano le faraone, guardava l’acqua salire di gradino in gradino alla fiocca luce della candela. Venne il giorno che la tempesta si fermò, smise di piovere e ritornò il sole. L’acqua era uscita quasi tutta dall’alveo del fiume, restava un piccolo corso che continuava ad alimentare l’enorme “lago Polesine”. Il Po ora sembrava in una secca estiva. Sull’ argine centinaia di persone con i loro fagotti di misere cose sistemate alla meno peggio. Acqua da tutte le parti, solo un lungo argine su cui eravamo naufraghi su ad una lunga isola, uniti a tanti altri disperati. Eravamo riparati sotto il telone che d’estate copriva il frumento sull’aia. Ricordo i buoi, con le lunghe corna, a mangiare fieno. Poi il camion di mio zio Camillo, mia madre che con forza mi costringeva a salire insieme a mia sorella ed io che non volevo andare. Emisi, forte, due bestemmie, la terza non ebbi il tempo di pronunciarla perché mi arrivò una sberla di immane potenza che mi ruppe le labbra: “non ho mai più bestemmiato”. Fui messo sul camion direzione Ferrara, da zia Fernanda, dove rimasi fino a quando le acque si ritirarono. Tornati a casa restavano le pulizie per liberare le stanze dall’acqua. Noi bambini stavamo sempre a giocare nelle pozze d’acqua, dove si trovava anche qualche piccolo pesce. I miei fratelli più grandi invece erano intenti a pulire la casa dal fango portato dall’acqua.
In quella grande casa avevamo un locale adibito a cantina, per accedervi bisognava scendere un paio di gradini. Durante la piena le botti, piene del vino novello, si erano girate e spostate dalla loro sede, mio padre aprì la porta e dimenticando gli scalini ancora coperti dall’ acqua, fece un passo per entrare e profondò fino alla cintura. Ci mettemmo tutti a ridere, capimmo che il peggio era passato e che stava ritornando la tranquillità e l’allegria. Avevamo scampato il pericolo, si poteva ricominciare.
FerMala
La sera di mercoledì 14, un grosso boato scosse la popolazione di Occhiobello: “Il Po ha rotto l’argine a Malcantone”. Fino al mare un’enorme distesa d’acqua. Sarà questa l’alluvione più estesa che possa ricordare l’Italia. Prima l’acqua percorse in senso inverso i canali di scolo. Quello che avevamo dietro casa nostra aumentava di minuto in minuto la propria portata. Il ponte, per arrivare a casa nostra, ne ostruiva il corso e l’acqua, come un in enorme getto spruzzava rumorosamente dalla parte opposta provocando un’enorme buca che rimase visibile per anni. Lo zio Clemente stava cenando quando sentì l’acqua bagnargli i piedi. In fretta si spostò al piano superiore, dove stavano le faraone, guardava l’acqua salire di gradino in gradino alla fiocca luce della candela. Venne il giorno che la tempesta si fermò, smise di piovere e ritornò il sole. L’acqua era uscita quasi tutta dall’alveo del fiume, restava un piccolo corso che continuava ad alimentare l’enorme “lago Polesine”. Il Po ora sembrava in una secca estiva. Sull’ argine centinaia di persone con i loro fagotti di misere cose sistemate alla meno peggio. Acqua da tutte le parti, solo un lungo argine su cui eravamo naufraghi su ad una lunga isola, uniti a tanti altri disperati. Eravamo riparati sotto il telone che d’estate copriva il frumento sull’aia. Ricordo i buoi, con le lunghe corna, a mangiare fieno. Poi il camion di mio zio Camillo, mia madre che con forza mi costringeva a salire insieme a mia sorella ed io che non volevo andare. Emisi, forte, due bestemmie, la terza non ebbi il tempo di pronunciarla perché mi arrivò una sberla di immane potenza che mi ruppe le labbra: “non ho mai più bestemmiato”. Fui messo sul camion direzione Ferrara, da zia Fernanda, dove rimasi fino a quando le acque si ritirarono. Tornati a casa restavano le pulizie per liberare le stanze dall’acqua. Noi bambini stavamo sempre a giocare nelle pozze d’acqua, dove si trovava anche qualche piccolo pesce. I miei fratelli più grandi invece erano intenti a pulire la casa dal fango portato dall’acqua.
In quella grande casa avevamo un locale adibito a cantina, per accedervi bisognava scendere un paio di gradini. Durante la piena le botti, piene del vino novello, si erano girate e spostate dalla loro sede, mio padre aprì la porta e dimenticando gli scalini ancora coperti dall’ acqua, fece un passo per entrare e profondò fino alla cintura. Ci mettemmo tutti a ridere, capimmo che il peggio era passato e che stava ritornando la tranquillità e l’allegria. Avevamo scampato il pericolo, si poteva ricominciare.
FerMala
lunedì 12 novembre 2012
giovedì 8 novembre 2012
Messico
Si parte per il Messico - "San Josè del Cabo - Cabo San Lucas"
... e non poteva mancare il mio pesciolino ad accompagnarmi, lo libererò nelle acque dell'oceano Pacifico appena più sotto del tropico del cancro.
Il pesciolino è un po' bruciacchiato quasi come i messicani, sarà più facile individuarlo.
..... attendo le vostre segnalazioni del ritrovamento.
venerdì 2 novembre 2012
Voglio credere
VOGLIO CREDERE
Passano gli anni e coloro che se ne
sono andati sono sempre di più.
Alcuni se ne sono andati quando
avevano compiuto i loro giorni.
Altri troppo presto senza lasciarci il tempo di rendercene conto.
Se guardo il cielo mi piace pensare
che mi guardano:
lo voglio credere.
lo voglio credere.
Spesso li ricordo al mattino, la
sera, la notte.
Quando guardo le stelle, sento una
canzone, alla ricorrenza di una data, un luogo, un oggetto, un profumo di rosa
o di un fiore, un arcobaleno, mi ritornano in mente persone con le quali ho
vissuto, amato e giocato, come i mie due fratelli, i miei genitori e tanti
amici .
Chi mi manca mi sta guardando dal
cielo?
lo voglio credere.
lo voglio credere.
giovedì 1 novembre 2012
Kiwi 187
Ho terminato la raccolta del kiwi, con frutti di grandi dimensioni.
Metodo pratico e veloce per maturare il frutto.
Mettete alcuni kiwi insieme ad un paio di mele in un recipiente ben chiuso.
Dopo 4/5 giorni i frutti saranno maturi.
Le mele mature sviluppano un ormone vegetale, etilene, che a contatto con i frutti ne accelera la maturazione.
Il kiwi è maturo quando al tatto risulta leggermente tenero.
Metodo pratico e veloce per maturare il frutto.
Mettete alcuni kiwi insieme ad un paio di mele in un recipiente ben chiuso.
Dopo 4/5 giorni i frutti saranno maturi.
Le mele mature sviluppano un ormone vegetale, etilene, che a contatto con i frutti ne accelera la maturazione.
Il kiwi è maturo quando al tatto risulta leggermente tenero.
giovedì 25 ottobre 2012
domenica 14 ottobre 2012
martedì 4 settembre 2012
martedì 21 agosto 2012
San Francisco
Addio a Scott McKenzie,
menestrello della musica della mia giovinezza.
Nell'estate del '67 con una chitarra acustica addolcì i nostri giorni.
Il suo messaggio ... mettete dei fiori nei vostri capelli... non è stato raccolto.
La sua musica resterà per sempre.
giovedì 9 agosto 2012
Pesciolino
Un altro pesciolino di legno per Martina da liberare nel Piave.
Questo è l'ottavo che viene lasciato libero nelle acque dove viene fatta una vacanza.
La speranza resta di trovarlo sulle spiagge, di qualsiasi posto del mondo, o che qualche blogger mi scriva di averlo trovato, farebbe felice Martina e anche me.
Acque della sorgente del Piave - Sappada.
..vai pesciolino,
impara a nuotare fino al mare
dove qualcuno ti potrà trovare.
è lì che io ti verrò a cercare.
lunedì 23 luglio 2012
Mieli
Millefiori, Tiglio, Acacia.
Tre tipi di miele con tre profumi diversi e delicati.
"questa non la sapevo" Un apicultore mi ha suggerito di mettere nel congelatore il miele per conservarne il profumo. Ho fatto una prova con alcuni vasetti, il miele si è indurito, ma non cristallizzato. Attenderò dicembre per toglierli dal frigo, scongelarli e verificare se questo nuovo modo di conservare il profumo del miele risponde al vero.
Tre tipi di miele con tre profumi diversi e delicati.
"questa non la sapevo" Un apicultore mi ha suggerito di mettere nel congelatore il miele per conservarne il profumo. Ho fatto una prova con alcuni vasetti, il miele si è indurito, ma non cristallizzato. Attenderò dicembre per toglierli dal frigo, scongelarli e verificare se questo nuovo modo di conservare il profumo del miele risponde al vero.
martedì 17 luglio 2012
Mietitura
MIETITURA.
Dal
mio diario – martedì 24 giugno del 1958.
... E’
l’alba, il sole non è ancora sorto, ma la sua luce sta scacciando il buio della
calda notte, presto apparirà infuocato all’orizzonte e sarà giorno.
Cicale
e grilli mandano i loro richiami, uniti a quelli di merli e passeri. Il gallo sbatte
le ali e con tutto il fiato che ha in corpo manda ripetuti chicchirichì. Non
c’è bisogno della sveglia del gallo per gli abitanti della fattoria. Nella casa “al cunvent” è tutto un andirivieni
di persone indaffarate. Si sentono ordini, si corre, si prendono gli attrezzi
già pronti dal giorno prima.
Oggi
inizierà la mietitura del frumento, un evento importante per tutta la comunità.
Sotto l’albero grande del frassino “frassan” alcuni uomini avevano piantato per terra “la pianta” un grosso chiodo di ferro, con il martello, hanno battuto su quel ferro, la falce fienaia “fer da sgar” per renderla più tagliente. Le donne hanno preparato: la falce “sghet”, quello dell’insegna dei comunisti, e i “balzi” per legare i fasci di spighe di frumento “le faie”.
Sotto l’albero grande del frassino “frassan” alcuni uomini avevano piantato per terra “la pianta” un grosso chiodo di ferro, con il martello, hanno battuto su quel ferro, la falce fienaia “fer da sgar” per renderla più tagliente. Le donne hanno preparato: la falce “sghet”, quello dell’insegna dei comunisti, e i “balzi” per legare i fasci di spighe di frumento “le faie”.
Ieri alcuni mietitori hanno tagliato il
frumento ai bordi del campo per permettere il passaggio dei mezzi meccanici.
Alle
quattro una gran comitiva si avvia verso il biondo campo di grano. Nella
rimessa “barchessa” adibita a ricovero degli attrezzi agricoli si procede a
scaldare, con la bombola a gas, la camera di scoppio del Landini L25 “mutor” con volano esterno. Il robusto mio fratello
maggiore Raimondo, con un forte colpo al volano, fa partire il trattore a testa
calda. Un grande fumo bianco e un intenso odor di nafta si sparge nell’aria,
lenti e sempre più veloci e ritmici scoppi del motore rompono il silenzio
mattutino. Mia sorella Ivana aggancia la segatrice meccanica “la sgadora” e insieme
al fratello raggiungono gli altri. Calata la barra falciante si inizia a tagliare
il frumento. Con una manovra combinata l’operatore che sta sulla segatrice lascia
libera una leva, tenuta dalla pressione del piede destro, poi con un largo
forcone “pizza gal” lascia a terra il contenuto di una “faia” di frumento. Mio
padre e mia madre sono insieme ai mietitori tutt’intorno al campo, appena transita
il trattore e la segatrice, si adoperano a raccogliere il mazzo di spighe e a
legarle con i balzi ricavati da un’erba lacustre “caret” che cresce sulle
sponde dei fossi, viene fatta essiccare,
intrecciata a mano e annodata all’estremità. Le “faie” così prodotte vengono,
delicatamente, allontanate per permettere il successivo passaggio “dal mutor e
d’là sgadora”.
Il
campo, a me, sembra sconfinato. Giallo e luccicante. Sono poco più alto delle
spighe. Sento l’odore della paglia appena tagliata, cammino a piedi scalzi tra
le “stoppie”. Vedo in aria le rondini che con volo radente cacciano qualche
insetto, coccinelle “buarine”. La grande
distesa di frumento è interrotta solo dalla lunga fila di pioppi “piope” dalle verdi chiome che stanno ai lati
di uno stradone, che collega la fattoria alla strada principale. L’alba è azzurrognola
e l’aria è ancona fresca. Tutto il campo brulica di gente che segue il trattore
e la segatrice, ognuno lavora con allegria e sveltezza, si fanno prove di
forza, sembra non facciano fatica ad affastellare i covoni “crusete”. Il sole è già alto, la lunga ombra dei pioppi
si è ritirata vicino alla pianta, la polvere, secca la gola. Un ragazzino “fiol”
con una sporta di paglia e due fiaschi, uno d’acqua preso alla pompa ed uno di
vino annacquato, porge, ai mietitori perché ne bevano “ un mescul parchè iè
sedià”.
Alle
sette è finito il primo turno “quart” di lavoro ci si ferma per fare colazione
“cazion” tutti mostrano gran appetito “sghissa”. Il bovaro “buar” fa abbeverare “ all’albi” i buoi e con la frusta “scùria”
aveva fatto sentire un paio di schiocchi in aria per ottenere la loro
attenzione.
I ragazzini giocano all’ombra “mussa, puli
scena baccalà, maghin, s’cianco, lipa, cut”.
Si torna
ad affilare i ferri del mestiere.
Sul campo di frumento, la domenica delle
palme, mio padre ci aveva piantato una semplice croce di legno, formata da due
bastoncini di salice, con legato un rametto d’ulivo per scongiurare la
grandine. Analoga operazione faceva mia nonna Matilde - bruciava alcune foglie
d’ulivo benedetto quando i temporali minacciavano grandine (i più pericolosi
–dicevano- provenivano dal Garda). La
mietitura non si doveva mai iniziare di venerdì, chi iniziava in quel giorno
rischiava di non finirla.
Ora
tutto il taglio si è completato, sul campo i covoni di “faie” raccolte a croce stavano
lì come guardiani silenziosi del campo, in testa un’ ulteriore fascio “al gal”
che nell’ombra della sera prendeva sembianze umane. Stavano fermi pronti per essere
caricati e portati, con carro e buoi, nel grande cortile per la trebbiatura. L’indomani alcune donne, con i figli minori, sarebbero
andate nel campo a spigolare (spigar).
…..Me ne andavo al mattino a spigolare Quando ho visto una barca
in mezzo al mare: Era una barca che andava a vapore, E alzava una bandiera
tricolore. ….“ricordi di scuola”.
Le
spigolatrici portavano un sacco di tela legato ai fianchi, curve sul terreno
prendevano le spighe cadute a terra durante la lavorazione di mietitura. Stendevano
le spighe sull’aia le battevano con apposito attrezzo: due legni legati tra di
loro da una pelle essiccata di anguilla
“varzela”. Per dividere il frumento dalla pula, lanciavano a ventaglio frumento
e pula, con una pala, contro vento. Il frumento più pesante andava lontano e la
pula restava dietro.
Ed ecco là in fondo allo stradone una grossa
macchia rossa che avanza, tutti i ragazzini saltellano felici e per vedere
meglio si arrampicano sui rami del frassino. Davanti un fumante trattore
lentamente la traina. E’ la trebbia “Orsi”
seguita dalla pressa “l’imballadora”. A
me l’imballatrice ha sempre fatto paura, con la sua ritmica ed inesorabile
bocca di coccodrillo spingeva la paglia uscita dalla trebbia con forza dentro
ad una corsia di forma rettangolare dove uno stantuffo la pressava. Ai lati due
persone che si tenevano coperti, bocca e naso, dalla polvere con un fazzoletto
legato al collo, legavano con il fil di ferro le balle di paglia "inguciar". Era compito di noi bambini attorcigliare e tirare il fil di ferro. Due operai
con due legni “angun” le portavano sul
pagliaio “balara” dove noi ragazzini correvamo sopra e ci lanciavano al volo su
cumuli di paglia.
La trebbia veniva sistemata al centro del
cortile. Il meccanismo veniva fatto funzionare da un trattore sistemato ad una
decina di metri. Il collegamento tra le pulegge avveniva attraverso una grossa
cinghia “zangion”. Dalla parte alta gli
uomini facevano entrare le “faie”, appositi setacci separavano il frumento
dalla pula e dalla paglia. Forti uomini si caricavano i sacchi di frumento ed
andavano a svuotarli sull’aia ad una ventina di metri. Il cumulo di frumento “mota”
veniva successivamente disteso al sole per la finale essiccatura. La sera era
di nuovo accumulato e coperto da un telo “tlon”. La notte si faceva la guardia
per la paura di furti. Quand’era disteso toccava a noi bambini girarlo e
rigiralo "spatzaz" con i piedi: erano giorni belli e giocosi, quanti “tuffi” sui cumuli
di frumento. La sera pieni di polvere si andava nel canale di scolo a fare il
bagno nell’acqua, a quel tempo, pulita.
Dopo
qualche giorno di sole il frumento è pronto per il granaio. Mio padre (come
l’uomo del monte) aveva affondato il braccio nel cumulo, preso una manciata e
fatto scorrere tra le dita, ne aveva schiacciato, con i denti, alcuni chicchi.
A voce alta aveva detto: “è pronto” . Il capo dei contadini prendeva una grossa
pala “palon” e riempiva lo staro, circa 25 kg. Tre stari per ogni sacco.
Caricato il sacco sulle spalle si saliva una scala fino al granaio al secondo piano.
La
sera, stanco mi sono addormento in braccio a mia madre.
Durante la guerra il grano era razionato e non lo si poteva
commerciare o trasportare liberamente.
Mi raccontava Ahtos che, mentre trasportava con biroccio “buroz” e cavallo dei sacchi di frumento fu fermato da due carabinieri i quali gli chiesero cosa trasportasse. Con molta calma e indifferenza rispose: “smenza ad paia” e non disse “frumento”, che è la stessa cosa. Le guardie non compresero e lo lasciarono passare.
Mi raccontava Ahtos che, mentre trasportava con biroccio “buroz” e cavallo dei sacchi di frumento fu fermato da due carabinieri i quali gli chiesero cosa trasportasse. Con molta calma e indifferenza rispose: “smenza ad paia” e non disse “frumento”, che è la stessa cosa. Le guardie non compresero e lo lasciarono passare.
FerMala
domenica 15 luglio 2012
Olio essenziale
Ieri siamo andati alla raccolta della lavanda. Ho visto come si ricava l'olio essenziale.
Un olio profumatissimo ed è un vero tocca sana. L'ho visto fare ed ho voluto copiare.
Ho preso una pentola a pressione, un tubo di rame, a due bottiglie di vetro ho tagliato, ad una il fondo, all'altra il collo e inserite una dentro l'altra. Nella pentola ho messo, un litro d'acqua, inserita una griglia cuoci verdure per tenere sopra l'acqua i fiori di lavanda. Un fornello elettrico per produrre calore, dopo una decina di minuti inizia la distillazione, dalla serpentina esce un composto di acqua e olio l'acqua esce dal fondo in superficie resta l'olio essenziale. Si preleva con con una siringa e si mette in un piccolo contenitore con dosatore di vetro scuro. "è profumatissimo".
n.b. in erboristeria sarebbe costato molto meno.
sabato 7 luglio 2012
Kiwi - strage
Ho finito di diradare il kiwi. (varietà hajward)
Una strage di frutti, non conformi a quanto richiede il mercato.
I frutti piccoli, deformi, appiattiti sono stati recisi e lasciati a terra.
I rimasti avranno più spazio per crescere, belli forti dolci per deliziare il palato e... l'occhio.
Il kiwi è il frutto, delizioso, dell'actinidia, pianta dioica.
E' di origine cinese, dove cresce spontanea nella valle del fiume azzurro.
E' di origine cinese, dove cresce spontanea nella valle del fiume azzurro.
Il nome kiwi è stato dato dai neozelandesi che hanno preso spunto dall'uccello che vive e rappresenta la Nuova Zelanda.
mercoledì 4 luglio 2012
venerdì 29 giugno 2012
mercoledì 27 giugno 2012
Fichi, beccafichi, S.G.B.
Ficus carica
Fichi fioroni
E' stagione di fior di fico le notti calde favoriscono la produzione dell'infiorescenza carnosa del fico.
Resiste bene alla siccità e ai terreni salsi e incolti, in particolare come apparato radicale di una pianta da clima semidesertico, le radici sono molto invasive, per cercare l'acqua possono penetrare negli scantinati e tubature. È una delle poche piante da frutta che resista senza problemi a climi aridi. D'inverno sopporta temperature attorno ai 10 gradi C°.
Beccafico (sylvia borin). Ho notato che i fioroni piacciano anche a questo uccello dal delizioso canto.
Il 24 giugno è il giorno di San Giovanni Battista.
Da questa data (decollazione di S.G.B.) si possono raccogliere le noci per preparare il nocino, tagliare le spighe di lavanda per essiccarle e confezionare sacchetti, raccogliere la menta ..... e tante altre operazioni di taglio.
.
Fichi fioroni
E' stagione di fior di fico le notti calde favoriscono la produzione dell'infiorescenza carnosa del fico.
Resiste bene alla siccità e ai terreni salsi e incolti, in particolare come apparato radicale di una pianta da clima semidesertico, le radici sono molto invasive, per cercare l'acqua possono penetrare negli scantinati e tubature. È una delle poche piante da frutta che resista senza problemi a climi aridi. D'inverno sopporta temperature attorno ai 10 gradi C°.
Beccafico (sylvia borin). Ho notato che i fioroni piacciano anche a questo uccello dal delizioso canto.
Il 24 giugno è il giorno di San Giovanni Battista.
Da questa data (decollazione di S.G.B.) si possono raccogliere le noci per preparare il nocino, tagliare le spighe di lavanda per essiccarle e confezionare sacchetti, raccogliere la menta ..... e tante altre operazioni di taglio.
.
lunedì 25 giugno 2012
Croce madreperla
Croce latina con forme di
madreperla da conchiglie di fiume e di mare.
numeri: 4 – 7 – 12.
gli evangelisti, … i colli di Roma, ... gli apostoli.
gli evangelisti, … i colli di Roma, ... gli apostoli.
Al centro il disco di
madreperla da ostrica di mare.
… il mare alimenta, (al contrario), i fiumi, i piccoli ruscelli, la singola goccia d’acqua, che è ognuno di noi.
… il mare alimenta, (al contrario), i fiumi, i piccoli ruscelli, la singola goccia d’acqua, che è ognuno di noi.
seguo il giorno
che cammina,
incantato
dai suoni,
dalle luci,
dai colori,
dai riflessi.
Ho tutto.
che cammina,
incantato
dai suoni,
dalle luci,
dai colori,
dai riflessi.
Ho tutto.
Erzberg (amico, sbadato, sfigato)
Erzberg 2012 (Austria)
L’amico, lo sbadato e lo sfigato.
L’amico, lo sbadato e lo sfigato.
Quando andavo a
scuola e il prof. mi leggeva l’inferno di Dante, lo avevo immaginato come un
grande imbuto. Una serie di cerchi che degradavano verso il fondo sempre più
stretto ed ora ecco che, quell’immagine, mi appare dinnanzi … è la cava di
ferro di Erzberg in Austria, scenario unico
al mondo per una durissima gara di enduro.
E’ uno spettacolo unico che mi si è aperto agli occhi quando, dopo aver sostato la notte sul camper, fuori dalla cava, sono entrato, insieme ad una lunga fila di mezzi di ogni genere: caravan, camion, furgoni, fuori strada ed altro ancora, tutti adibiti a trasporto moto da cross enduro con rider (piloti) a bordo. La notte era stata un susseguirsi di pioggia e di conversazioni telefoniche con gli amici che erano arrivati entro le 22, l’ora stabilita per accedere alla “collina” ed accamparsi per i quattro giorni del rodeo. Alle sette in punto, non un minuto di meno, la guardia, posta sull’incrocio che dava alla cava, ha iniziato a far transitare i mezzi. Il fango rosso scendeva con l’acqua dalla ripida strada sterrata che dava accesso alla collina. Tutti hanno fretta di raggiungere il loro posto per piazzarsi e sostare. Il nostro era stato recintato dai tre amici che erano entrati il giorno prima. Una decina di manovre per trovare il posto giusto: quattro camper, due di fronte ad altri due e tutti e quattro ad una distanza ravvicinata dai cessi. I cessi ogni quattro ore venivano svuotati da apposita cisterna mobile e l’odore, non certo buono, ti restava nell’aria per una decina di minuti.
Il giovedì si passa alla punzonatura delle moto, all’assegnazione dei numeri di gara e del transponder. Venerdì mattino di buon ora tutti svegli, si fa colazione e ci si appresta alla vestizione dei piloti, poi tutti giù a prendere il via al cancello di partenza: ne parte uno ogni 10 secondi.
La giornata è calda, le nuvole hanno lasciato il posto ad un sole caldissimo. Ci mettiamo ai bordi della pista con macchine fotografiche. La gara inizia e insieme alle moto arriva la polvere di terra rossa che un lieve venticello spinge sopra di noi ed entra nelle nostre narici, la polvere si accumula sulle facce e dopo pochi minuti sembriamo come truccati con il mascara. Dentro le narici si formano dei sassi che, dita esperte, di tanto in tanto entrano a liberarle… Quando il vento cambia e spinge oltre la polvere arriva l’odore delle pisciate fuori dal bagno che un po’ tutti fanno. IL paddock è un campo multinazionale, tutti intenti agli ultimi dettagli per la messa a punto delle moto. Tutte le nazioni d’Europa sono rappresentate, si leggono sui numeri di gara nomi stranieri e nazioni anche d’oltre oceano. Ogn’uno si è ritagliato un piccolo spazio vitale. Siamo prigionieri dei mezzi del vicino come nel gioco dello shangai, non ci si può muovere se qualcuno non ti dà spazio. La sera è tutto un brulicare di fuochi accesi per la carne alla griglia.
Siamo accampati a più di un chilometro dall’arena, da dove partono i piloti, con un dislivello di almeno trecento metri. “l’ho fatta un paio di volte e per poco non mi scoppiava il cuore” La pista, della grande montagna, arriva fino a 1.466 metri d’altezza, sul fondo dell’enorme imbuto un laghetto di acqua verde rame. I piloti partecipanti sono più di 1850. Un raduno “biblico” che non ho mai visto di simile in vita mia. Sarà una gara durissima, dicono, “la più dura del mondo” e solo 500 dei 1850 iscritti potranno partecipare alla gara della domenica.
Si parte per i due prologhi (Iron Road Prologue) del venerdì e del sabato. Una gara cronometrata sui 13 km circa. Bisogna andare forte tra i sassi, la ghiaia, la polvere e buche d’acqua che ancora persistono sulla pista dalla pioggia del giorno prima.
Come già detto, mi sono sistemato sul bordo della pista su ad una collina del materiale di scarto della cava: sassi e ghiaia. La distanza è tale che non si distinguono i motocrossisti, ci sarebbe voluto un cannocchiale. Scruto l’orizzonte per identificarli da qualche particolare, è difficile non scorgo nessuno. La macchina fotografica è pronta, faccio zumate inutilmente, non mi resterà nessuna foto.
Qui inizia il mio personale e “tranquillo week end di paura”. Non ho visto passare Murdock 741, mentre altri due amici, Ronca 31 e Ghergio, alzano il braccio e salutano.
Lo sapevo, “lui” pensa alla gara, non vuole distrarsi per potersi piazzare tra i 500 e non vuole perdere tempo a salutare. Ha piazzato la telecamera sul casco per filmare il percorso. Dopo una buona mezz’ora arrivano tutti al paddock: lui no! Mi dicono che ha rotto la moto era davanti a loro e quando lo hanno raggiunto ha fatto loro segno di proseguire senza fermarsi, era in piedi e stava bene. Fingo impassibilità, ma ho una stretta allo stomaco. Passano i minuti, poi le ore e non arriva al campo. Ghergio, il biondo, è incavolato perché a poche centinaia di metri dall’arrivo ha sbagliato percorso, si è perso nella pista e non ha concluso la prova (sbadato).
Cerchiamo di avere informazioni dagli organizzatori, “i crucchi” non sanno niente, non si capisce niente, sono intenti a controllare, ma non danno informazioni. Vado su e giù dalla collina, una fatica boia, il sole spacca le pietre, l’afa e il caldo insopportabili.
Mezzogiorno. Non si sa ancora niente, chiediamo alla croce rossa, ma non hanno fatto ricoveri all’ospedale. Alle 13 vedo salire uno stralunato essere umano tutto sudato, una goccia per ogni poro, rosso cotto dal sole che avanza con passo lento ed incerto. Il cuore riprende a battere regolarmente. “Ho sbiellato” dice e chiede acqua, la moto è a circa 5 chilometri, i commissari di gara non lo lasciavano andare. Con gli amici nel tardo pomeriggio recupera la moto. Per lui l’Erzberg è finito. Serata di imprecazioni e sfottò addolcite da una buona salsiccia alla brace, vino clinton e birra. La mattina del sabato le nuvole coprono il cielo sulla pista e ora fa freddo. Uno dei suoi amici, Ronca 31 (amico), insiste per farlo correre al posto suo con la sua moto e con la sua identità. Murdock 741 è perplesso, ma alla fine accetta volentieri. Piove, mi copro con la cerata e ombrello. Sono ben appostato, ho chi mi farà il segno quando partiranno gli amici. Una grossa nuvola copre la montagna, scende una nebbia fitta come quelle del Polesine. La gara viene annullata. Restano validi i tempi del giorno prima. (Sfigato).
“Non può finire così, vogliamo ritornare ancora ad Erzberg per la rivincita”.
I tre non hanno vinto nessun premio e allora gliene ho confezionato uno per ciascuno con i sassi prelevati dalla cava di Erzberg.
L’amico(friend), lo sbadato(careless) e lo sfigato(unlucky).
E’ uno spettacolo unico che mi si è aperto agli occhi quando, dopo aver sostato la notte sul camper, fuori dalla cava, sono entrato, insieme ad una lunga fila di mezzi di ogni genere: caravan, camion, furgoni, fuori strada ed altro ancora, tutti adibiti a trasporto moto da cross enduro con rider (piloti) a bordo. La notte era stata un susseguirsi di pioggia e di conversazioni telefoniche con gli amici che erano arrivati entro le 22, l’ora stabilita per accedere alla “collina” ed accamparsi per i quattro giorni del rodeo. Alle sette in punto, non un minuto di meno, la guardia, posta sull’incrocio che dava alla cava, ha iniziato a far transitare i mezzi. Il fango rosso scendeva con l’acqua dalla ripida strada sterrata che dava accesso alla collina. Tutti hanno fretta di raggiungere il loro posto per piazzarsi e sostare. Il nostro era stato recintato dai tre amici che erano entrati il giorno prima. Una decina di manovre per trovare il posto giusto: quattro camper, due di fronte ad altri due e tutti e quattro ad una distanza ravvicinata dai cessi. I cessi ogni quattro ore venivano svuotati da apposita cisterna mobile e l’odore, non certo buono, ti restava nell’aria per una decina di minuti.
Il giovedì si passa alla punzonatura delle moto, all’assegnazione dei numeri di gara e del transponder. Venerdì mattino di buon ora tutti svegli, si fa colazione e ci si appresta alla vestizione dei piloti, poi tutti giù a prendere il via al cancello di partenza: ne parte uno ogni 10 secondi.
La giornata è calda, le nuvole hanno lasciato il posto ad un sole caldissimo. Ci mettiamo ai bordi della pista con macchine fotografiche. La gara inizia e insieme alle moto arriva la polvere di terra rossa che un lieve venticello spinge sopra di noi ed entra nelle nostre narici, la polvere si accumula sulle facce e dopo pochi minuti sembriamo come truccati con il mascara. Dentro le narici si formano dei sassi che, dita esperte, di tanto in tanto entrano a liberarle… Quando il vento cambia e spinge oltre la polvere arriva l’odore delle pisciate fuori dal bagno che un po’ tutti fanno. IL paddock è un campo multinazionale, tutti intenti agli ultimi dettagli per la messa a punto delle moto. Tutte le nazioni d’Europa sono rappresentate, si leggono sui numeri di gara nomi stranieri e nazioni anche d’oltre oceano. Ogn’uno si è ritagliato un piccolo spazio vitale. Siamo prigionieri dei mezzi del vicino come nel gioco dello shangai, non ci si può muovere se qualcuno non ti dà spazio. La sera è tutto un brulicare di fuochi accesi per la carne alla griglia.
Siamo accampati a più di un chilometro dall’arena, da dove partono i piloti, con un dislivello di almeno trecento metri. “l’ho fatta un paio di volte e per poco non mi scoppiava il cuore” La pista, della grande montagna, arriva fino a 1.466 metri d’altezza, sul fondo dell’enorme imbuto un laghetto di acqua verde rame. I piloti partecipanti sono più di 1850. Un raduno “biblico” che non ho mai visto di simile in vita mia. Sarà una gara durissima, dicono, “la più dura del mondo” e solo 500 dei 1850 iscritti potranno partecipare alla gara della domenica.
Si parte per i due prologhi (Iron Road Prologue) del venerdì e del sabato. Una gara cronometrata sui 13 km circa. Bisogna andare forte tra i sassi, la ghiaia, la polvere e buche d’acqua che ancora persistono sulla pista dalla pioggia del giorno prima.
Come già detto, mi sono sistemato sul bordo della pista su ad una collina del materiale di scarto della cava: sassi e ghiaia. La distanza è tale che non si distinguono i motocrossisti, ci sarebbe voluto un cannocchiale. Scruto l’orizzonte per identificarli da qualche particolare, è difficile non scorgo nessuno. La macchina fotografica è pronta, faccio zumate inutilmente, non mi resterà nessuna foto.
Qui inizia il mio personale e “tranquillo week end di paura”. Non ho visto passare Murdock 741, mentre altri due amici, Ronca 31 e Ghergio, alzano il braccio e salutano.
Lo sapevo, “lui” pensa alla gara, non vuole distrarsi per potersi piazzare tra i 500 e non vuole perdere tempo a salutare. Ha piazzato la telecamera sul casco per filmare il percorso. Dopo una buona mezz’ora arrivano tutti al paddock: lui no! Mi dicono che ha rotto la moto era davanti a loro e quando lo hanno raggiunto ha fatto loro segno di proseguire senza fermarsi, era in piedi e stava bene. Fingo impassibilità, ma ho una stretta allo stomaco. Passano i minuti, poi le ore e non arriva al campo. Ghergio, il biondo, è incavolato perché a poche centinaia di metri dall’arrivo ha sbagliato percorso, si è perso nella pista e non ha concluso la prova (sbadato).
Cerchiamo di avere informazioni dagli organizzatori, “i crucchi” non sanno niente, non si capisce niente, sono intenti a controllare, ma non danno informazioni. Vado su e giù dalla collina, una fatica boia, il sole spacca le pietre, l’afa e il caldo insopportabili.
Mezzogiorno. Non si sa ancora niente, chiediamo alla croce rossa, ma non hanno fatto ricoveri all’ospedale. Alle 13 vedo salire uno stralunato essere umano tutto sudato, una goccia per ogni poro, rosso cotto dal sole che avanza con passo lento ed incerto. Il cuore riprende a battere regolarmente. “Ho sbiellato” dice e chiede acqua, la moto è a circa 5 chilometri, i commissari di gara non lo lasciavano andare. Con gli amici nel tardo pomeriggio recupera la moto. Per lui l’Erzberg è finito. Serata di imprecazioni e sfottò addolcite da una buona salsiccia alla brace, vino clinton e birra. La mattina del sabato le nuvole coprono il cielo sulla pista e ora fa freddo. Uno dei suoi amici, Ronca 31 (amico), insiste per farlo correre al posto suo con la sua moto e con la sua identità. Murdock 741 è perplesso, ma alla fine accetta volentieri. Piove, mi copro con la cerata e ombrello. Sono ben appostato, ho chi mi farà il segno quando partiranno gli amici. Una grossa nuvola copre la montagna, scende una nebbia fitta come quelle del Polesine. La gara viene annullata. Restano validi i tempi del giorno prima. (Sfigato).
“Non può finire così, vogliamo ritornare ancora ad Erzberg per la rivincita”.
I tre non hanno vinto nessun premio e allora gliene ho confezionato uno per ciascuno con i sassi prelevati dalla cava di Erzberg.
L’amico(friend), lo sbadato(careless) e lo sfigato(unlucky).
sabato 16 giugno 2012
Lavanda
LAVANDA e lavandini
Nella foto
due delle tre specie che posseggo.
Siamo nel
periodo di maggior fioritura della lavanda e dei suoi ibridi “lavandini”. .
Il nome "lavanda" deriva dal fatto che questa specie era molto utilizzata per “lavare” il corpo.
E’ una pianta che cresce spontanea nel sud d’Italia, preferisce terreni aridi e sassosi. I fiori di un azzurro pallido sono profumatissimi. Spesso le api vi fanno visita per raccoglierne il nettare. La sera strofinatevi dei fiori sul corpo, avrete meno possibilità di essere punti dalle zanzare. Raccogliete i fiori, lasciateli asciugare all’ombra, poi confezionate dei piccoli sacchetti di stoffa da posizionare tra la biancheria, il suo delicato profumo vi accompagnerà per tutto l’inverno. La lavanda è l'elemento base per la preparazione dei pot-pourri per profumare la casa.
Il nome "lavanda" deriva dal fatto che questa specie era molto utilizzata per “lavare” il corpo.
E’ una pianta che cresce spontanea nel sud d’Italia, preferisce terreni aridi e sassosi. I fiori di un azzurro pallido sono profumatissimi. Spesso le api vi fanno visita per raccoglierne il nettare. La sera strofinatevi dei fiori sul corpo, avrete meno possibilità di essere punti dalle zanzare. Raccogliete i fiori, lasciateli asciugare all’ombra, poi confezionate dei piccoli sacchetti di stoffa da posizionare tra la biancheria, il suo delicato profumo vi accompagnerà per tutto l’inverno. La lavanda è l'elemento base per la preparazione dei pot-pourri per profumare la casa.
Esistono una
cinquantina di specie di lavanda. A fine fioritura si deve potare eliminando
gli steli fioriferi e cimare le piante.
“Percepire l’essenza dei
colori, dei profumi può far bene all'anima, perché è vita”.
martedì 5 giugno 2012
Ciliegie
Tanti piccoli cuoricini rotondi, rossi e dolci.
Tante, troppe ciliegie e poche foglie, il risultato sono frutti piccoli e poco succosi.
La ciliegia ha proprietà simili all'aspirina, ideale per tener lontano l'infarto.
Anche le ciliegie hanno il loro santo protettore è S. Gerardo dei Tintori si festeggia il 6 giugno a Monza.
sabato 12 maggio 2012
Actinidia fiori
E' iniziata la fioritura dell'actinidia chinensis (kiwi) varietà hayward. Prima i rami che sentono maggiormente il caldo delle belle giornate di maggio poi, in pochi giorni, anche tutti gli altri fiori sbocceranno e stenderanno il loro mantello bianco panna sotto le verdi e larghe foglie.
Il kiwi è una pianta dioica devono esserci piante femminili e maschili, almeno un maschio ogni sette femmine. I fiori femminili si distinguono perché sono disposti con spazi tra di loro, quelli maschili a grappolo. La pianta femminile va potata in inverno, mentre quella maschile dopo la fioritura a fine primavera (giugno).
Per l'impollinazione sono necessari gli insetti pronubi, le api, i bombi, ed altri insetti che portano il polline da fiore a fiore. Il polline del kiwi è molto secco e le api in genere non gradiscono perché difficile da accumulare sulle zampette posteriori. Un altro elemento che aiuta l'impollinazione è il vento che trasporta il polline dal maschio a femmina. Chi ha poche piante può usare il cotton fioc facendolo passare con delicatezza tra i fiori maschili e poi portarlo su quelli femminili.
Per una buona pezzatura del kiwi è necessaria una buona impollinazione.
I fiori emanano un delicato profumo.
Foto in alto fiori femminili, in basso fiori maschili.
Iscriviti a:
Post (Atom)